Odissea » Carmelo Pirrera

IL FASCINO DELLE IPOTESI

di Carmelo Pirrera

 

Il riproporsi di una “questione omerica” ci induce ad alcune considerazioni tra le quali, non
ultima, quella che il poema, l’Odissea, è il prodotto di una civiltà tanto diversa e distante dalla
nostra per cui i nostri mezzi e i nostri criteri risultano inadeguati.

Nuove ed affascinanti ipotesi si affacciano ed hanno tutte la stessa legittimità. Esse si muovo-
no nel rispetto della struttura elementare del poema che si costituisce attorno ai temi dell’atte-
sa, del ritorno e della vendetta creando attorno a tali elementi nuove interpretazioni e nuovi
significati.

Le molte traduzioni, d’altra parte, hanno avvicinato di volta in volta il poema e il suo spirito
allo spirito dei lettori destinatari del racconto e così si hanno con Livio Andronico che
tradusse l’Odissea per i latini già nel III sec. a.C., le prime varianti nella nomenclatura per cui
la Musa sarà Gomena. Kronos sarà Saturno e Moira sarà la Morte. Lo schiavo greco non
nasconde lo sforzo per esprimere con forma latina e con spirito romano quello che era il
mistero e il mondo dei miti omerici.

Lo stesso accadrà in ogni traduzione nei vari paesi e nei secoli, sicché la fioritura di traduzio-
ni. anche pregevoli, dell’età neoclassica ci offre assieme al racconto omerico un’idea della
temperie culturale della società al quale esso è destinato, per non dire delle versioni pittoriche
che risentono tutte della grande lezione pittorica del Rinascimento, quasi che il poema, come
un grande specchio attraversasse le vie del mondo e che gli elementi della nostalgia, dell’atte-
sa e della vendetta fossero vissuti nei secoli che ne reinterpretavano l’umana sostanza, poiché
il poema, pure col generoso concorso della divinità che assume sembianze umane, narra
errori, speranze e limiti umani.

E’ con Ulisse, infatti, con questo eroe, ultimo a tornare dalla lunga guerra contro Troia, che si
chiude il periodo eroico: “Dopo Odisseo comincia la vita senza eroi, dove le storie non
accadono esemplarmente ma si ripetono e si raccontano. Ciò che accade è la mera storia”
osserva Roberto Galasso in un libro che viene ancora una volta a testimoniare la presenza del
mondo dei miti nel nostro tempo, in gran parte della narrativa e della poesia di contempora-
nei, e non soltanto per dare nomi ad atteggiamenti psichici o a categorie di destino.

Una recente traduzione in prosa di Giuseppe Tonna (Garzanti 1986) condotta sul testo critico
di Thomas W. Alien (Oxford 1938), sorprende quanti hanno conosciuto l’Odissea nella pur
pregevole traduzione di Ippolito Pindemonte ( e siamo la maggioranza degli italiani) per un
diverso, dimesso linguaggio, più proprio ad una civiltà primitiva e più proprio ad un libro che
documenta la fase finale del medioevo ellenico, che precede, cioè, il costituirsi dell’aristocra-
zia che assumerà il potere nelle città-stato arcaiche.

Siamo ancora difronte ad una traduzione, ma si tratta di una traduzione in prosa dove si pensa
siano state evitate le insidie della lingua epica che notoriamente è prodotto di grande artificia-
lità, lontana dalla lingua parlata e dalla necessità della parola.

Attesa, ritorno e vendetta anche qui vi si compaiono e ci lasciano, infine, un Ulisse consegna-
to ad una incredibile sorte sedentaria dalla quale sarà Dante a trarlo, a beneficio suo e nostro:
“O frati, dissi, che per cento miglia / perigli siete giunti all’occidente / a questa tanto picciola
vigilia / de’ vostri sensi, ch’è del rimanente / non vogliate negare l’esperienza / di retro al sol,
del mondo senza gente. / Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti /
ma per seguire virtute e conoscenza”.

Navigare: l’Ulisse dantesco non si sottrae a questo imperativo che nell’inferno degli inganni e
delle frodi acquista la solennità di un comandamento; e bisogna navigare anche se la promes-
sa ultima non è promessa di gloria, non è il vello d’oro che è stato premio alle fatiche degli

Argonauti, ina una umanissima fine con tanta testimonianza di oceani in un vorticare di tutte
le ncque, che assume il significato di una congiunzione di punti estremi, la conciliazione della
libertà dell’uomo nel suo fato.

Sono lontane da questa fine le donne dell’Ade che insieme tessono, con il loro racconto, la
trama intrigata delle genealogie, delle faide ricorrenti, dei nomi che si ripetono c si somiglia-
no, degli stupri divini; la presenza del dio che abitava la pietra, il serpente e la fonte è presen-
za improbabile, a raccontarla cosi potrebbe sembrare ed è una comune storia di mare, di
quelle che il mare ha suggerito C cullato prima clic venisse Omero: una morte per acqua,
come ne ricorderà T. S. Eliot in tempi recenti.

E molte ne dovettero esser narrate di storie nei vari porti mediterranei da aedi e cantastorie
che le portarono in giro, aggiungendo o togliendo qualcosa, ira genti sedentarie che vivevano
per un’ora l’imprestito di una avventura per poi tornare alle fatiche della terra. C’è chi pensa
clic, addirittura, si trattasse di un “genere1‘ dove il viaggio e la vendetta fossero motivi assai
frequentati e che di volta in volta all’eroe “cantato” si attribuissero gesta di altri eroi forse
vissuti in altri luoghi, forse vissuti in nessun luogo.

Più di un poeta medievale, del resto, si è inventali viaggi nel mondo a venire; più di un poeta
del Quattro e del Cinquecento ha cantato le prodezze di Orlandu.

I .e nuove ipotesi, come si è detto, non mancano di fascino ne va scordalo, pure ammettendo
una possibile pluralità di Odisseo, che nel testo pervenutoci spesso i farti non collimano, i
ricordi non sono precisi c che agli studiosi non sfuggono certe incongruenze come non
sfuggono all’esame filologico talune parti concepite in funzione di “raccordo”.

Ma le indicazioni geografiche – sostenevano gli studiosi – potevano essere trasmesse senza
difficoltà. Oggi, invece, tali indicazioni vengono discusse, lo scenario «ri sposta ad ovest
grazie a singolari coincidenze, mentre in una lecerne versione ampiamente commentata.
Aurelio Privitela assicura che l’itinerario di I lissc. lungi da fare indicazioni geografiche da
“trasmettere senza difficoltà”, sarebbe uno scarabocchio: Il viaggio non esiste. Ulisse va da
Occidente a Oriente: (il suo) è un muoversi pendolare e simbolico da qualcosa che è positivo
a qualcosa che è negativo. A seguirlo ci si perde, perchè è lui n perdersi. 11 viaggio si compie
in luoghi che servono alla sua conoscenza interiore.

Anche questa e ipotesi che acquista diritti di fronte al mistero; riferimenti ed indirai si con-
traddicono e annullano c il più grande dei poemi che tratta di una storia di mare potrebbe
essere stato scritto da uno che il mare mai aveva veduto, pur inventando per esso mille
aggettivi; ma che forse non aveva ocelli per vederlo. Ancora Omero, dunque: Un vecchio
dalla fronte bianca come nuvola, dirà Lee Maslers – o qualcuno che seppe ascoltare racconti
di naufragi con attenta pena: una donna, suggerisce Samuel Buttar c ci induce a pensare a
Nausicaa.

Alla reggia di Alcinoo, infatti, l’eroe racconta (libri VI – XII) la somma delle sue sventure,
esortato dallo stesso re che si accorgo della sua sofferenza neU’ascoltarc il canto di Demodo-
co: l’amabile cantore che la Musa ebbe più caro degli altri: gli dava un bene c un male. Anche
Demodoco è cieco ed c fin troppo facile pensare che, alla maniera degli artisti del nostro
Rinascimento, Omero abbia posto se stesso in un angolo del grande affresco che andava
dipingendo; concctturo facile e legata ad una cultura (la nostra) che come si diceva all’inizio,
è fondamentalmente diversa, c ciò avviene e avvenuto a chi legge perchè ogni tatto che
cade sotto la nostra attenzione finisco col fare i conti con la nostra esperienza e coi nostr i
codici.

Ma sarebbe giusto respingere una ipotesi solo perchè plausibile?

forniamo alla ipotesi della donna-poeta. Si tratta, come vuole Buttar, di Nausicaa, fanciulla
inesperta i cui sensi si sono accesi per lo straniero apparsole per prima, tra le inorridite
compagne? o non. piuttosto, di A rete, la saggia regina dalle bianche braccia clic ne ha ascol-
tato l’intero racconto c che, di fallo, favorirà il suo ritorno in patria?


Se si fosse trattato di Nausicaa avremmo avuto un poema dove il lamento di donna innamora-
ta (e abbandonata) avrebbe preteso per sè congrua parte; un lamento di Didone ante-litteram
col giusto corredo di disperazione, che nel poema manca.

E’ ancora la nostra esperienza di lettori viziati che ci porta a pensare ad altre donne che
raccontano: le nonne di qualche generazione addietro custodivano un mondo di fiabe e
misteri domestici, una poetica sapienzialità venuta meno con l’avvento della televisione che
ne ha dilatato i limiti; e ci soccorre memoria più antica di tale Shahrazade, principessa orien-
tale, che per mille e una notte racconta e racconta e così sopravvive a un destino crudele che
potrà compiersi solo con l’esaurirsi del racconto. Ed è qui che il raccontatore si identifica con
la vita stessa in una matafora semplice e sublime.

Rimanendo nell’ipotesi, se fu una donna a raccontare dell’uomo versatile e scaltro che andò
vagando per i mari, fu una donna che ebbe grande esperienza di uomini e di naufraghi;
marinai dispersi dalle procelle forse trovarono approdo e riparo nel suo letto tiepido, nel suo
seno materno, nel suo grembo.

Ella ne ascoltò infiniti racconti, dettati più volte dal vino della tristezza – talvolta il mare era
stato colore del vino, ma altre volte era il vino più amaro del mare.

La donna fu materna e fu amante. Li ascoltava senza trattenerli, senza speranza o propositi di
legarli con nodi maritali, lasciandoli liberi di perdersi di nuovo, di tornare se ne avessero
avuto voglia.

E doveva ben trattarsi di una donna degli angiporti per la quale le civiltà successive coniarono
e coniano nomi che suonano insulto, scordandosi del mito di Tanit, la prostituta divina.
Nausicaa non scrive: rimane il luogo incontaminato dove la giovinezza toma ad illudere il
cuore, nostalgia di perduta innocenza. Non scrive: si raccomanda al ricordo e tornerà nei
ricordi dell’eroe nella stagione che fa rimpiangere i naufragi.

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