Intorno alla trilogia poetica di Nat Scammacca, “Ericepeo”
II
Antigruppo 73 fu ufficialmente proclamato il 19 novembre 1972 in sede di Congresso Sindacato Nazionale Scrittori in un ristorante della Valle dei Templi, ad Agrigento: molto augurale, quel posto, per un programma ermeneutico di nuovo messaggio, là dove tremila anni fa passava di già il pensiero delle Lettere d’Alessandria per una apertura policentrica (ellenistica) quale contraltare gnostico: questa immensa tribuna —la Valle dei Templi — sopravvissuta all’urto dei secoli con la sua immensa anima.
Tale affermazione di identità culturale, pertinente al nostro triangolo insulare, tradizionalmente lontana, se non totalmente avulsa dall’antica vocazione al silenzio (“Palermo dice, Roma smentisce”, ci ricorda Enzo Biagi) può dirsi veramente di compendiarsi come riscatto nella poesia-manifesto di Nat Scammacca, “1 nuovi 21 punti dell’Antigruppo” come in una summa programmatica nata dallo scontro di due scuole antagoniste: la storicisticaliberale contro la positivista-marxista, per avversione naturale in un terra ove, a parte le motivazioni storicistiche, ribellarsi al potere culturale voleva dire dissenso dall’arbitrio della Camera dei Bottoni: “Anti”, pluralista a sostegno di un ordine “orizzontale” dei valori intellettuali, di contro all’altro valore verticale, gerarchizzato: “… Che i peggiori scrittori, i balbuzienti suonino pure la loro campana/ imparando da quel suono il linguaggio”.
La cultura di un’epoca la si può rinnegare quando non fa più parte della coscienza collettiva. Anche Pier Paolo Pasolini in “La nuova gioventù” proclama questo principio, in dialetto friulano e quindi più immediato, più rissoso: “1 ma- ledis la storia/ ch’a no è in me ch’i no la vuei… Pasolini, che fin dal 1960 aveva immesso dentro la storia (finalmente!) la profezia che la lingua degli operai in avvenire non sarebbe stata quella della letteratura, ma l’altra della nuova coinè costruttiva della fabbrica, contraltare di risonanza contro la casta gnostica ed aristocratica. “Antigruppo”, quindi, come manifesto del dissenso.
“Il ruolo degli intellettuali”, scriveva Felix Guattari, lo psicanalista francese ne “il messaggio contro la repressione”, firmato anche da Jean Paul Sartre, da Roland Barthes e da Michel Foucault” non è quello di aspettare, che un sistema totalitario monti sotto i loro occhi. In passato — aggiunge Guattari — “abbiamo visto troppa gente di cultura, che ha taciuto in nome di nobili principi, come la solidarietà internazionale e la lotta antifascista. Ma di fronte a fatti come quelli di Bologna — aggiunge lo psicanalista francese — dove ci sono ancora giovani in carcere peravere animato una radio libera, non possiamo far fìnta di non aver visto ”. (Cfr. Giornale di Sicilia 2/8/1977, “La pagina del dissenso ’’ di Placido Cesareo): certamente, un messaggio monitorio, codesto. Ma molto tempo prima, appunto il 19 novembre 1972 ad Agrigento nella Valle dei Templi, in sede congressuale, Il Sindacato Nazionale Scrittori aderente ad “Antigruppo 73”, per un motivo analogo aveva fatto “appello alle forze antifasciste rappresentate alle Camere perché venisse votato al più presto il progetto di soppressione di tutte le leggi repressive de! Codice Rocco in contrasto con i princìpi costituzionali della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza ’’ (220firme, compresa la mia), e ciò a seguito dell’arresto dello scrittore Alfredo Maria Bonanno, condannato poi per reati di opinione. In questo contesto programmatico si informa quindi la poesia di Nat Scammacca, contro chi ha barattato la civiltà della parola, deliberatoriamente, come strumento del dubbio, così artificiosamente piegata, la parola, alla disinformazione per legittimare determinati condizionamenti sociali.
“All’inizio era il Verbo”, e- sordisce il Vangelo. Ma se a Confucio fosse stato concesso di governare, egli avrebbe “rettificato il linguaggio”, come ebbe a dichiarare a chi aveva fatto abuso della parola.
Anche Nat Scammacca, nella poesia “Anno uno”, bussa alla porta filologica con un canto limpido; sentitelo: “Anno uno”. Allora il bracciante lascerà la vanga/ dicendo — Basta! —/ questa terra è mia/ camminerà verso il municipio/ dove quel cretino d’impiegato finalmente/ smetterà di scrivere ” (ecco, da qui la fine del linguaggio equivoco), “e guardando nel cielo/—di colpo — vedrà/ una nuvola bianca libera/ si metterà a marciare/ a fianco al bracciante/ da stanza a stanza/ fino all’ufficio del padrone./ Entreranno senza bussare/ per annunciare coi dittafoni/ “Ascoltateci tutti/ da oggi inizia l’anno uno/ ogni uomo sulla terra/ mangerà lo stesso pane/ avrà la stessa paga./ Guai a chi vuol essere padrone!”
Certo, un dialogo con la storia, il tempo di Nat Scammacca e di “Antigruppo 73”, a parte le battute di fiele di Ferdinando Camon sul Corriere della Sera (21 maggio 1977), che ci ha intravisti tra i “quarantenni scavalcati”, assieme agli altri di “Antigruppo 63”, anch ’essiforti di una loro ortodossia” con dentro lo stomaco una bomba a mano. Forse aveva compreso, il Camon, nella sindrome dei quarantenni, le bestemmie incendiarie di Santo Cali. 0 forse nel catalogarci aveva attinto ad una battuta sempre di moda, che per un parricidio freudiano vuole alla forca i quarantenni, dal momento che anche Furio Colombo dieci anni dopo — pensate — titola pure “L’assassinio dei quarantenni” un suo articolo su “L’Espresso dell’8 febbraio 1987, parlando degli scrittori U.S.A., anche loro ahimè poco longevi, stando alla falcidia operata da questi solerti tenutari dell’anagrafe intellettuale. A questo punto per soprammercato i bizantini della parola interrogherebbero con sospetto la locuzione “Antigruppo”, forti della loro dogmatica filologica, postulata dalla coincidentia oppositorum, come nell’apologo di quel tale Epimenide di Creta, il quale, affermando che tutti i Cretesi erano bugiardi, egli stesso si era dato del bugiardo, assolvendo così ipropri conterranei del predetto epiteto. Un rompicapo passato alla storia. Poiché Epimenide, da buon cretese, così dicendo, aveva discolpato se stesso dall’ingiuria, per cui poteva tornare di nuovo alla carica, accusando e assolvendosi all’infinito.
Ma “Antigruppo” non può essere tema di un nuovo apologo, non prevedendo nel suo titolo antiretorico, di inquadrare in gruppo chicchessia, tanto meno quelli della sua stessa ermeneutica, che appunto dissentono » dall’ordi- narsi in congrega o in associazioni per educazione mentale. Forse polemica, la precisazione, ma necessaria, per la messa a punto di una strategia di difesa interessata anche allo scrivente in prima persona singolare, per gli stessi princìpi vitali per cui sono governati, e l’“Antigruppo 73”, e la poesia di Nat Scammacca, intelligenze didattiche codeste a me consanguinee per diritto di elezione spontanea.
CESARE SERMENGHI
SULL’«ERICEPEO»
Come Coleridge anche Nat Scammacca cerca nella bellezza lo splendore della verità: da qui il suo dialogo d’amore con le rose che coltiva nella terrazza della sua casa, quasi in volo fra mare e cielo, fra Trapani ed Erice.
“Oh, -io sono innamorato delle rose, per me alle volte sono più di Trapani”.
È nella loro bellezza, nel gratuito mistero di un’effìmera quanto inimitabile armonia che a volte l’assoluto gli svela la sua vertigine.
Ed ecco precisarsi l’idea da cui nascono versi a prima vista curiosi, come quelli in cui il poeta prega la moglie di dichiarargli tutto il suo amore di fronte alle rose della sua terrazza, dopo averla destata sul fare dell’alba.
Lei, “scandalizzata”, rifiuta di farlo: “No, no. Nessuno mi costringerà/ a parlare con le rose”. Lo scandalo è solo inadeguatezza, perché in verità, solo così, di fronte alla bellezza di quelle rose, frammento dell’idea univer
sale del bello, le parole si sarebbero liberate dalla precarietà delle cose umane per eternizzarsi, divenendo verità. Alle rose Nat dedica molte delle poesie inserite nel primo volume dell’Erice- peo, sia facendone oggetto di riflessioni sia scegliendole quale termine di paragone: “una grande rosa è il cielo”.
E se bello è anche buono, secondo l’ideale sintesi del pensiero e dell’arte greca, solo loro, le rose, possono capire quanto sia stato triste per i bambini che “vissero nel pugno nazista” non “vedere crescere un fiore”: per questo le gocce che, improvvise, cadono dai loro petali sono lacrime di condivisione.
Ma “troppa bellezza è pena”, perché la vità è effimera e “niente tornerà di nuovo”.
Questo senso della caducità dell’esistenza è un altro motivo che percorre le liriche di Nat Scammacca, accomunandolo alla sensibilità dei lirici greci: Mimnermo scrive: “Come le foglie che il fiorito tempo di primavera germina …noi, simili ad esse, breve tempo abbiamo”, e Nat: “E noi appassiremo come le rose”. Tutto ciò vena i suoi versi di una malinconia che non è, però, ripiegamento passivo, nè lamento, ma sorgente di dubbio e di ricerca nel tèntativo di trovare una risposta.
La poesia si fa così anche “filosofia”, non certo perché pretenda di organizzarsi in un coerente sistema speculativo, ma perché desidera comprendere, essere “religione” nel senso etimologico del termine, cioè bisogno di “relegare” (raccogliere, armonizzare) ciò che appare caotico, disarmonico. In ultimo, una risposta non è data, nè ciò sarebbe possibile, perché il senso della poesia è proprio in questo interrogare, in questo cercare.
“Oh, chi siamo?/ Che cosa sappiamo/ e che cosa non sappiamo/ mentre l’universo/ gira e non si ferma/ andando impietosamente in ’ nessun luogo”. Dice una delle poesie dallo stesso autore definite “philosophical e me- taphisical poems” e raccolte nel secondo volume della trilogia.
Perché la realtà è sempre percepita da un io, non solo diverso da quello degli altri, ma anche diverso da sè istante dopo istante, un io comunque limitato, perché coglie l’altro attraverso l’imper- fezionamento dei sensi e dei segni contingenti.
Così non solo nessuna conoscenza ultima è possibile, ma ogni uomo si trova a parlare solo a se stesso: “Il peggio è che quell’altro uomo/ io/ sta parlando pure/ ma/ a me”.
Eppure la gioia dell’esi- stere può essere a patto che, dimenticando se stesso, l’io si identifichi con le cose e, contemplandole, entri nel ritmo dell’esistenza senza chiedersi il perché di nulla, aderendo alla bellezza dell’istante:
“Allora, tocca questo magico manto.
Su! Su! Nella luce della luna. Inondati nella scia aperta. Sebbene tutto è mortale.
Così si perde il confine tra la realtà ed il sogno: “Io/ non/ so/ se/ Chung-tsu/ sognasse/ di/ essere/ una/ farfalla/ o/ se/ io/ adesso/ sono/ una farfalla/ che sogna/ di essere/ Chuang-tsu”.
La concentrazione meditava è in queste liriche talmente densa, da generare, a volte, punte d’ossessione e passaggi logici così arditi, da richiedere un notevole slancio intellettuale da parte del lettore, che si sente proiettato in un mondo, dove tempo, spazio, reale, fantastico si incontrano in una sintesi così potente da disorientare ed ammaliare nello stesso tempo.
L’ossessività trova un suo riscontro anche stilistico nella ripetizione di alcuni termini che si rincorrono, spesso antitetici, mutando ordine, senso, da un opposto concettuale all’altro:
“God! Are you the stillness? Are you the blackness/ My light cannot stop upon?/
I tremble into being like a shadow made of light/ (…) I want my light/ Yet love the darkness/ How can a stillness love the Stillness? (Play with Silence, pag. 26); o ancora: “I am like every other thing/ Less than what is but/ more than what is not”.
Il terzo libro rivela un altro aspetto della complessa e varia personalità del poeta, quello per il quale ha raggiunto la notorietà negli anni della contestazione, quando, insieme ai suoi amici del- l’Antigruppo (Cane, Termi- nelli, Certa, Cali ed altri) recitava nelle piazze i suoi versi, infuocati, traboccanti di impegno politico e civile.
Questo, devo dire, è il libro che non riesco ad amare del tutto, perché in molte poesie l’ideologia è soltanto propaganda, grido di rabbia, proclama (basti leggere “Retorica di sangue”, pag. 49); non riesce, insomma, a trasformarsi in metafora, in immagine, in ritmo.
Molto più belle sono quelle che, pur generate da un’ideologia precisa, la sottintendono, e, senza sacrificare il dire poetico, riescono a farla passare attraverso non solo l’intelligenza, ma il sentimento e la misura stilistica.
Nascono così le delicatissime ed incisive poesie “Nove Aprile” (pag. 89), dedicata al leader negro Martin Luther King, ed “Era mio zio ’u mastru fìrraru”, dove si possono leggere versi di alta commozione, quali: “Portatelo gentilmente/ — vi prego — / non vedete quanto immacolatamente bianco è il suo amore?” e: “la morte per gente come noi/ è una bara povera/ di semplice legno/ e che la vita non significa niente,/ viviamo questa farsa/ e moriamo soli per sempre/ eccetto quella bandiera rossa/ spiegata alta nel vento”.
Altrettanto toccante è: “Mi urla la rabbia”, dove l’immagine della piccola bimba che dorme richiama il frammento del poeta greco Simonide, che narra di Danae in contemplazione del figlio addormentato nella triste arca tra il rumore dei flutti del mare.
La piccola figlia di Nat chiude “le lunghe ciglia sulla candida guancia tondeggiante/ ella dorme e tutto è lieve respiro”. E nulla c’è di più triste tra la serenità della bimba e la disperazione del- l’esistere; tra l’innocenza e l’inconsapevolezza della piccola Arleen e la rabbia di Nat che non può darle altro che miseria in una “catapecchia che scricchiola di vecchiaia”.
Tuttavia in ognuna di queste poesie è sempre commovente la certezza del poeta in un mutamento prossimo della società, il suo fare dell’utopia lo scopo di perseguire, frantumando anche l’ultimo residuo di cattiveria, appellandosi a quell’uomo nuovo che, secondo Scammacca, doveva e poteva realizzarsi attraverso la fede nella filosofia popolista.
“E gli uomini saranno buoni/ si, faranno soltanto cose buone,/ come se i cieli fossero sempre azzurri/ e il profitto non fosse misura delle cose”. (Soltanto con un sorriso?, pag. 59). A lettura ultimata, l’impressione che se ne riceve è quella di un fiume in piena che ti trascina nel cuore e nella mente del poeta.
È una sensazione straordinaria: Nat Scammacca disvela tutto di sè, come un paesaggio inondato di luce meri-, diana: i pensieri, gli affetti, le vicissitudini, l’ideologia, le speranze, l’impegno, le tristezze, le gioie.
Perfino le fotografìe inserite nei tre volumi hanno il compito di rilevare il volto vivo e reale delle persone più amate e di fissare nel tempo e nello spazio i momenti più significativi di una vita costellata di fatti straordinari, che forse non poco hanno contribuito alla originale personalità dell’autore. O forse è la sua naturale originalità ad avere voluto per sè fatti tanto diversi? Fatto sta che la poesia di Nat, pur rivelando una vasta cultura, in particolare la lettura dei classici greci e latini, e lo studio del pensiero filosofico occidentale, nonché la influenza della poesia
inglese ed americana dell’800 e del ’900, resta personalissima, nutrita di dolcezza ed aggressività, di malinconia e fede nella vita, di voli utopici e di forte senso del reale, di egotismo e di apertura umana e sociale, tutte componenti del carattere di Nat.
Basta conoscerlo e conversare con lui per poche ore per restare colpiti dalla straordinaria mutevolezza del tono della sua voce e dalle espressioni facciali, spie di rapide variazioni di umore e di pensiero.
ERICEPEO: Una intervista della poetessa Licia Liotta all’autore Nat Scammacca
Vol I: Family & Nature Poems · Vol. Il· Philosophical & Metaphysical Poems· Vol III : Antigruppo – Inferno
Coop. Ed. Antigruppo, Il Vertice · Cross-Cultural Communications
(Sono in vendita presso la Libreria Best Seller di Trapani)
Voi. I: Pittura di G. Russo Voi. Il:
Disegni di N. D’Alessandro Voi. Ili: Disegni di S. Salamone
Può sembrare un “narcisistico” modo di intendere mettere in evidenza su questa pagina culturale le mie pubblicazioni, ma c’è una cosa che intendo chiarire: mi pare giusto non ignorare quegli amici poeti e scrittori che avendo letto la mia ultima pubblicazione, Ericepeo, hanno sentito di recensirla o di venirmi a intervistare esprimendo così il loro interesse per il mio lavoro. Accantono perciò la modestia, l’eleganza e vado avanti…
- S.
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